Il visagista Dalla Palma: «È una giungla d'arroganza»
Un po' di storia anni Novata per scoprire chi eravamo, soprattutto con il nostro Made in Italy.
A Milano è arrivato ragazzo, senza una lira. Dormiva in un abbaino sui Navigli, niente riscaldamento, vetri rotti e servizi sul ballatoio.
«Eppure — ricorda Diego Dalla Palma — fu un periodo bellissimo. La città era viva, piena di fermenti, d'idee. Ci si trovava al Derby, al Refettorio, nei "trani", dove davanti a un bicchiere di vino si parlava e ci si divertiva perché c'era tanta voglia di ridere.
E poi, a chi come me veniva dalla provincia, Milano sembrava l'America».
Ci è riuscito. Ora abita in superattico a Porta Venezia, ha tre centri di bellezza in città e 400 punti vendita in tutta Italia per le sue numerose linee di trucco, è il beniamino di dive, indossatrici, stilisti e signore della buona società la cui bellezza riesce a esaltare come nessun altro, tiene rubriche sulle più importanti riviste femminili, e anche in radio e in Tv, ed è stato definito dal New York Times «il profeta del makeup made in Italy».
Ma Milano non gli piace più: «Mi sento prigioniero — racconta — nella mia casa. Fuori c'è la giungla: arroganza, sporcizia, criminalità, mancanza di valori. Non ci si diverte più, perché si ha fretta, ansia, paura, perché tutto è programmato e non si riesce a improvvisare. E perché qui uno conta solo per ciò che rappresenta (soldi, successo, notorietà) e non per ciò che è».
Così, seguendo molti altri esempi, ha deciso di andarsene, «perché — dice — voglio vivere, e non sopravvivere».
Se ne va non lontano, a Borgarello, 18 chilometri dal centro, pochi metri dalla Certosa di Pavia; in una grande villa del '700, con aia, cascine e stalle, nata come residenza estiva del nobile Francesco Mezzabarba.
E dei nobili antichi Diego intende seguire le orme. Sogna infatti di trasformarsi in mecenate, di fare della sua dimora il punto d'incontro privilegiato di artisti, scrittori, musicisti, creativi di ogni genere.
Per questo sta ristrutturando le cascine, i fienili, i silos, in foresterie e studi e spazi polivalenti dove ospitare gli amici «che operano nel campo della comunicazione e del pensiero, con la voglia di ricreare la civiltà di cortile d'un tempo, così diversa dall'odierna civiltà del business, basata sui rapporti d'interesse, sulle serate di rappresentanza, sulla solitudine di gruppo.
Milano ha perduto la poesia — dice — e io voglio ritrovarla a ogni costo».
Ma la colpa di questo imbarbarimento di chi è? «Sarebbe troppo facile incolpare gli amministratori soltanto.
Siamo noi che ci siamo inariditi, abbiamo rincorso i beni materiali perdendo di vista i valori più importanti.
È perciò indispensabile che il cambiamento parta da noi stessi».
Ma andarsene non è abdicare, non è una forma di egoismo?
«Forse lo è — ammette Diego — Però a Milano continuerò a rimanere per motivi dì lavoro.
Spero anche che quanto riuscirò a creare fuori, questa comune culturale e artistica, porti i suoi frutti alla città.
E poi si vive una volta sola, e a Milano la qualità della vita si è troppo deteriorata».
Di Viviana Kasam
Domenica 29 dicembre 1991